INTERVISTA A SILVANA MASTROTTO – VICE PRESIDENTE FONDAZIONE SILVANA E BRUNO

Signora Mastrotto l’impegno nel sociale sembra essere un tratto distintivo della sua quotidianità. Qual è stato il primo “impegno” in favore degli altri che ricorda? E quali sono seguiti. Avevo le figlie ancora molto piccole e ho deciso di impegnarmi come catechista. E da qui posso dire che è partito tutto. La parrocchia sapeva di poter contare su di me per le varie iniziative, ho provato anche l’esperienza dei gruppi di diffusione del Vangelo presso le famiglie. Ma ho subito capito che questo tipo di confronto richiedeva capacità oratorie che non mi appartenevano all’epoca e così, con l’aiuto del parroco del tempo, ho orientato il mio impegno verso situazioni di disagio: pensiamo ad esempio all’aiuto verso i ragazzi tossicodipendenti e i famigliari, problema molto sentito qui ad Arzignano negli anni ‘70. Mi ci sono buttata a capofitto, seguivo le famiglie in questo percorso difficile e doloroso, accompagnavo i ragazzi, e in qualche caso me ne sono fatta carico come si fa con un figlio.

Qual è stata l’esperienza più forte e toccante? Il rapporto con una ragazza che voleva rinunciare a portare avanti una gravidanza forse è stato il momento più difficile da gestire dal punto di vista emotivo; ma la fede e l’istinto mi hanno sempre guidato nella scelta giusta, anche a costo di sembrare dura, proprio come fanno le madri per salvare il futuro dei figli. E oggi, ripensando a quegli anni e sapendo che il bambino è poi nato, è cresciuto e sta bene, penso di poter dire di aver salvato una vita… e il pensiero mi fa star bene. Sono percorsi lunghi, a volte dolorosi ma non potevo farne a meno: se qualcuno aveva bisogno io c’ero, correvo.

Come è evoluta la sua esperienza nel volontariato, dall’aiuto alle famiglie singole ad una più ampia di aiuto ai gruppi? Ad Arzignano, dove i lavoratori stranieri impegnati nelle nostre concerie iniziavano ad essere molti, abbiamo capito quanto fosse importante pensare a qualche iniziativa per coinvolgere i figli degli immigrati, e in qualche modo, per quanto possibile, le famiglie. Ho lanciato l’idea al parroco di un doposcuola solo per bimbi delle elementari. La parrocchia ha messo i locali e noi volontari abbiamo organizzato il tutto trovando anche la maestra. Ed è nato così Karibuni. Il mio motto, ma forse è un tratto distintivo di tutta la nostra famiglia, è che se si deve fare qualcosa non ci sono scuse, si parte senza aspettare di avere tutto pronto, poi il resto viene di conseguenza. Ad oggi, coinvolgendo anche i ragazzini di 1° e 2° media, abbiamo 40 studenti e una lista d’attesa molto lunga, segno che se ne sente la necessità e soprattutto vediamo che tutti, soprattutto i ragazzini delle medie sono contenti e colgono la bontà dell’iniziativa.

Karibuni è una postazione privilegiata per vedere il grado di integrazione dei bambini e anche delle famiglie nel tessuto sociale del paese. Notate differenze rispetto agli inizi? La maggior parte dei bambini oggi sono molto ben integrati, e in alcuni casi vediamo che anche le famiglie piano piano si inseriscono nel tessuto sociale, partecipano alle riunioni o semplicemente alle festine di compleanno… purtroppo non è sempre così ed è fondamentale continuare a proporre iniziative che contribuiscano a creare un ambiente sano, favorevole alla condivisione dei nostri valori.

Il progetto Fondazione Silvana e Bruno è però diverso, nasce da dentro, dalla famiglia, dall’esperienza personale. E il Parkinson Cafè ne è l’espressione più intensa. Ci vuole raccontare come è nato questo nuovo progetto? L’aver vissuto la Malattia di Parkinson in famiglia mi ha portato a conoscere da vicino altri malati della zona, ho potuto vedere quali sono i problemi e le esigenze che poi viviamo in prima persona. Sicuramente per gestire la Malattia e contenere la degenerazione dei movimenti è fondamentale poter essere seguiti in maniera molto intensa. Ma un aspetto altrettanto delicato è il rischio di isolamento dei malati, che si chiudono a riccio e in alcuni casi si rifiutano di uscire di casa. Da qui, e in condivisione con la famiglia, abbiamo capito che questa sarebbe stata la prossima sfida. Sicuramente difficile ma proprio perché ci tocca da vicino sentivamo di dover far qualcosa di ancora più concreto. Serviva sì uno spazio fisico dove poter concentrare tutte le iniziative a favore dei malati e delle famiglie dei malati di Parkinson, ma con l’occasione si è pensato di dar vita ad una realtà che potesse poi proseguire anche in futuro.

Sarà l’occasione per ritornare a vivere le famiglie del territorio… Certo, sarà una prova non da poco perché il problema più grande è riuscire a coinvolgerli nel Cafè, a farli uscire per condividere un momento di svago così come le varie iniziative che andremo a realizzare, prima di tutto l’attività motoria. E’ pensato come uno spazio per i malati e dei malati che potranno gestire e far crescere in base alle loro esigenze.

I volontari avranno nella Fondazione un ruolo importantissimo, come sono stati scelti e cosa ci si aspetta da loro. Avendo a che fare con una disabilità la caratteristica che ho cercato, avendo gestito direttamente questa selezione, è stata la sensibilità, l’empatia, la capacità di rapportarsi con persone adulte, in maniera delicata e positiva. Per questo la scelta è caduta su quattro persone davvero speciali: un’infermiera in pensione, due volontarie dell’Associazione per i diritti del Malato e una dirigente scolastica anch’essa in pensione, tutte persone con una grande carica e sensibilità, abituate a muoversi nel tessuto sociale e ad aver cura dell’altro… doti necessarie per il buon funzionamento dell’iniziativa.